33. Eutanasia: il paradosso della libertà negata

Eutanasia1Sembra oggi inevitabile, ogni qualvolta si parla del problema del fine vita, chiudere il discorso con il riferimento ai diritti, alla libertà e quindi all’eutanasia. La “morte dolce”, inesorabilmente, viene accostata all’idea di emancipazione ed autonomia, alla sfera dei diritti inalienabili della persona, se non addirittura allamisericordia dovuta a chiunque soffra. L’eutanasia viene pensata come unacura, come un metodo più efficace per togliere le sofferenze al malatoterminale.

Chissà poi che cosa significa “malato terminale, visto che il dibattito sullostato vegetativo è ancora tutt’altro che chiuso (men che meno sono sciolti i vari interrogativi, sul piano etico, filosofico, assistenziale, medico-legale e di politica sanitaria)e la stessa scienza medica viene smentita di fatto nelle sue procedure, nelle sue previsioni, nelle sue teorie, con una certa costanza storica. Come si fa a definire in modo certo il futuro, che per sua natura èincerto e indefinibile? Nessun malato è infatti “terminale” almeno nella misura in cui il futuro resti indeterminato, per ciascun essere umano, e fino a quando continueranno a verificarsi risvegli e guarigioni[1] che la scienza medica non è in grado né di prevedere, né si spiegare. Chi sostiene che l’eutanasia sia una cura, oltre al paradossale utilizzo di termini opposti tra loro, ammette di fatto un determinismo assoluto che poi non è in grado di giustificare.

 

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Come in molti altri casi, anche per questo discorso la confusione linguisticaregna spesso sovrana.

Con “eutanasia” si indicano spesso genericamente una serie di situazioni e procedure che di fatto sono molto diverse tra loro e si rischia così di sostenere la legittimità di pratiche che andrebbero invece sostanzialmente distinte. Possiamo infatti differenziare tra “eutanasia attiva” e “volontaria” ed “eutanasia passiva”, che può essere a sua volta “volontaria” o “involontaria”. Per “eutanasia attiva” e “volontaria” si intende la messa in atto di un intervento (una somministrazione di farmaci) volto a procurare il decesso di una persona che, nel possesso delle proprie facoltà mentali, ne faccia esplicita richiesta: una sorta di suicidio assistito, vale a dire l’aiuto in termini di mezzi e competenze mediche fornito ad un persona che abbia deciso di togliersi la vita[2].

Per “eutanasia passiva”, invece, si intende l’interruzione o l’omissione di alcuni trattamenti funzionali a tenere in vita una persona. Si dice poi “volontaria” o “involontaria” a seconda che il paziente abbia o meno anticipatamente espresso delle direttive al riguardo. In molti paesi è infatti riconosciuta legalmente la possibilità di rilasciare una dichiarazione anticipata di trattamento (il cosiddetto “testamento biologico”) in cui si comunicano le proprie volontà circa le cure cui si intende o non si intende essere sottoposti in futuro, nel caso in cui ci si trovi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o dissenso.

In realtà va precisato anche che quella tra eutanasia attiva e passiva – potremmo dire tra uccidere e lasciar morire – è una distinzione tutt’altro che pacifica. La Consulta di Bioetica (l’associazione culturale italiana che riunisce bioeticisti di stampo laico), ad esempio, definisce l’eutanasia in questi termini: “Tralasciando qui i problemi spesso inestricabili relativi al “lasciar morire” e alla cosiddetta “eutanasia passiva”, con “eutanasia” si intende l’azione che procura una morte senza dolore ad una persona che ne fa richiesta, ripetutamente e senza incertezze, per evitare un’infermità inguaribile e una situazione degradante per la propria dignità“. [Documento sull’eutanasia, approvato dall‘Assemblea dei soci il 30 gennaio 1993]

Nonostante quest’ampia varietà di significati, i sostenitori dell’eutanasia affermano di difendere un diritto del cittadino, equiparando di fatto forme di eutanasia radicalmente diverse: a) il suicidio assistito e b) la morte subita da terzi in base ad una propria dichiarazione (testamento biologico) o peggio in base a congetture altrui.

Alla base di questa confusione sta un’altra affermazione dei sostenitori dell’eutanasia secondo i quali nella sfera delle libertà individuali dev’essere compresa anche quella di morire, quando e come si vuole: “la vita è mia, decido io”, sostengono. Ma è vero che una morte libera e dignitosa dev’essere garantita a tutti, per legge?

Innanzitutto c’è da chiedersi se sia davvero solo la libertà l’unico valore da difendere e l’unica facoltà di esercizio che debba essere riconosciuta agli individui. Resta poi da stabilire se davvero una vita degna di essere vissuta sia unicamente quella in cui il dolore e la sofferenza vengono espunte dall’orizzonte umano. Quasi come se non appartenessero all’essere-uomo, quasi come se fosse davvero reale, quindi umana, quindi dignitosa, solo una vita priva di sofferenze.

Iniziamo considerando il dolore. La percezione del dolore e l’idea stessa di pazienza, di tolleranza, fino a quella di dolore insopportabile, dipendono anche dalla percezione sociale che ne abbiamo. Nel momento in cui il dolore massimo che l’uomo può provare viene considerato inumano, si apre la strada ad unagradazione, ad una sorta di misurazione del dolore che c’è da credere verrà via via abbassandosi fino a considerare inumane anche altre tipologie di sofferenze. Chi decide qual è il valore, l’unità di misura di questa gradazione?

Siamo del resto nell’era del performante: l’uomo viene assimilato ad un motoremeccanico e se non funziona più a dovere, perde con ciò stesso la sua dignità. Dunque uccidere o lasciar morire (di questo si tratta) diventa paradossalmenteun atto caritatevole: la vita umana ha valore e dignità solo se è piacevole, gradevole, soddisfacente. Si aiuta il prossimo a sparire in fretta: vedere una persona soffrire atrocemente è disonorevole, per il soggetto in questione, per i familiari, per la società intera. Meglio uccidere o lasciar morire l’individuo.

Certamente le sofferenze vanno lenite, curate, alleviate per quanto possibile. Non è che si debba cercare il dolore in quanto tale, o evitare di combatterlo. Al contrario, si tratta di proteggere, di difendere la vita ed il valore della persona, con amore e compassione, nonché con l’aiuto di ogni supporto medico possibile. Si tratta, in altre parole, di non pretendere disumane scorciatoie, come quella di eliminare una vita quando (o in ragione del fatto che) non si riesce ad eliminare la sofferenza.

Ciò su cui forse dovremmo riflettere è l’implicita pretesa di considerare non-umane le sofferenze, quali che esser siano. Quasi come se l’esperienza del dolore fosse per la natura inumana: un accidente, una fatalità estranea da evitare, anche a costo di uccidere o lasciar morire una persona. Dimentichiamo che proprio la sofferenza ed il senso che le viene conferito è uno degli elementi che stabiliscono e rendono salda l’ontologia della persona.

Pretendere di annullare l’esperienza del dolore, a tutti i suoi livelli, è un sintomo di una malattia ben più grave di quella fisica. Il suo nome è volontà di potenza. Una apparente volontà di vita che si afferma al di là e al di sopra di tutto il resto, anche a costo di perdere la propria umanità e di tradursi inevitabilmente nel suo opposto, in una volontà mortifera che annulla se stessa.

Il rifiuto della debolezza umana, della finitudine, dell’esperienza del dolore e della malattia nascondono in fondo il desiderio dell’uomo di essere Dio. L’uomo è aperto al Trascendente: il suo inconscio e le sue contraddizioni lo rivelano con costanza disarmante.

Per questa visione nichilista della vita ogni uomo deve poter affermare la sua volontà, il resto non conta. Ma su questa strada ben presto si realizza che alla fine non conta più nulla: non contano gli altri, non conta la vita, non conta nemmeno il soggetto che decide. Il singolo deve poter continuamente aggiornare il suo punto di vista e mai fissarsi su alcuna verità: è questa la condizione antropologica, lo spazio morale che rende prima pensabile e poi possibile il suicidio, il lasciar morire, l’uccidere.

Tuttavia ogni spazio morale è socialmente condiviso e determinato: per questo l’eutanasia non può essere pensata come un problema individuale, sul quale solo il singolo ha diritto dell’ultima parola.

Ci sarebbe da capire se l’eutanasia non sia in realtà l’esatto opposto di ciò che vorrebbero farci credere: ovvero la maschera di una radicale negazione della libertà e della dignità della persona umana. Il nichilismo che fonda l’idea di eutanasia (la vita umana non ha in sé un valore assoluto in quanto il suo valore e la sua dignità vengono stabiliti di volta in volta dal soggetto, che può anche dire che ad un certo punto la vita non conta più niente, nihil, e va pertanto eliminarla) preclude ad una conseguente negazione del valore della vita e quindi della libertà e della dignità dell’uomo che da questa, non dimentichiamolo, dipendono. Libertà di coscienza e di auto-determinazione (che dovrebbero essere alla base della democrazia liberale occidentale) finiscono per questa via col tradursi nel loro opposto, in un atteggiamento mortifero che priva la vita umana di un suo valore sacro ed assoluto e, sotto la spinta della volontà di potenza, di fatto la rende passibile di valutazione e di giudizio: per ora da parte del singolo individuo, ma è già sufficiente per ipotizzare che saranno presto altria decidere sull’eutanasia, per tutti.

Consideriamo ora la libertà. Per questa via si giunge ad un altro paradosso: in virtù della libertà e della dignità dell’individuo si prende la strada che porta alla negazione della libertà e della dignità del singolo. La sua decisione circa il fine vita diventa un vincolo e il voler espandere ogni sofferenza dell’orizzonte umano apre le porte all’indicibile, ad un mondo in cui nessuno sa più dare senso alla sofferenza, alla lotta, alla vita stessa. Ad un mondo in cui inevitabilmente saranno altri a decidere chi deve vivere e chi invece deve morire.

Mentre si afferma genericamente che lo Stato non deve sostituirsi alla coscienza morale di ogni persona, dall’altra parte si sostiene che si deve permettere ad ogni individuo di esercitare la propria volontà suprema nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo per gli altri. Eppure come si è visto lo spazio morale in cui il singolo agisce è sempre socialmente condiviso, è sempre uno spazio relazionale, di cui le leggi dello Stato dovrebbero essere principi normativi: come si può pensare che l’affermazione di una mentalità così radicalmente nichilista non sia lesiva per tutti?

Se per legge la vita non è più sempre sacra e sempre inviolabile, non lo sarà più nemmeno la mia.

Inoltre, la bontà di un principio etico si valuta anche in fase di applicazione, prendendo in esame le sue conseguenze, possibili e reali.

Nel principio dell’eutanasia per tutti già dal punto di vista pratico sorgono problemi allarmanti. Almeno nella sua forma “passiva e volontaria”, l’eutanasia è infatti strettamente collegata al testamento biologico. Sempre ammesso che in nome di questa presunta libertà non si decida una “dolce morte per tutti” (è lecito infatti temere che per questa via si arrivi anche questo) ai cittadini dovrà essere accordato di manifestare liberamente il proprio consenso a tale pratica: nella dichiarazione scritta e regolamentata del testamento biologico, appunto. Ma un testamento non è un atto giuridico definitivo e così come l’individuo ha facoltà di sottoscriverlo, ha anche la libertà di cambiare idea, tornare dal notaio, redigere un nuovo atto che cancella il precedente e così via. In tal caso il testamento più vecchio perde ogni valore vincolante.

Che cosa succede nel caso del testamento biologoco? Come essere sicuri che le ultime volontà registrate e sottoscritte dal soggetto siano quelle effettive al momento dell’applicazione? Non è paradossale che in nome della libertà, l’individuo non possa più cambiare idea e le sue richieste di fatto negate? Immaginiamo: se questo libero cambiamento delle ultime volontà (rispetto al modo in cui desidera essere trattato nel caso della perdita di coscienza) non viene registrato con un nuovo atto, è ancora possibile affermare che con l’eutanasia si rispetta realmente la volontà dell’individuo? E ancora: come sapere quali sono le “ultime” volontà di ciascuno?

D’altra parte, anche nel caso del suicidio autonomo volontario è possibile cambiare idea proprio all’ultimo istante: posso stare sul cornicione anche una notte intera e poi decidere di scendere. Non sono obbligato a gettarmi nel vuoto finché non mi lascio andare. È questa la libertà: quella che si prolunga dalla decisione volontaria fino al momento in cui davvero si realizza l’azione. Dopo di che, quello che è fatto è fatto e non si può più tornare indietro. Ma fino all’ultimo, appunto in nome della libertà, dovrebbe essere garantita a ciascun individuo la possibilità di cambiare idea e tornare indietro sui suoi passi. Scendere da quel cornicione e non dargli una spintarella tenendo in mano il testamento redatto magari anni prima.

La verità è che l’eutanasia nega precisamente quello che vorrebbe garantire: la libertà dell’individuo e quindi la dignità ad essa correlata. Se è possibile che ciò avvenga anche in un solo caso (e come abbiamo visto è più che possibile, direi probabile) allora è lecito ipotizzare che sia possibile in tutti i casi. Di fatto il testamento biologico interrompe questo prolungamento dalla decisione all’atto, poiché per sua natura la pratica dell’eutanasia non può rendere conto di ciò che l’individuo vuole e decide realmente nel fatidico ultimo istante.

Gettando lo sguardo oltre le implicazioni giuridiche, mi chiedo, da un punto di vista morale, come si potrebbe definire il dare la morte ad un individuo che voleva questo trattamento ma che poi ha cambiato idea e che attualmente desidera invece essere curato fino alla fine?

La fine. A proposito del fine-vita, resterebbe anche da chiarire se non sia proprio quest’ultima possibilità autentica, quella che Heidegger definisce “un’imminenza che ci sovrasta”, a dare senso a tutta l’esistenza umana. Anche in senso retrospettivo. La morte, scrive Heidegger, “è una possibilità di essere che l’esserci stesso deve sempre assumersi da sé”[3]. In questo senso l’approdo ad un testamento biologico indica l’inautenticità di una scelta demandata ad altri, deprivandosi della propria libertà (come si è visto, anche di cambiare idea), una scelta che non sceglie, che non tiene conto che l’individuo autentico sceglie in prima persona la propria libertà, a partire dalla presa di coscienza della finitudine e della limitatezza umana, di cui il dolore e la sofferenza sono segni tangibili ed incontrovertibili. Questa è una declinazione del “vivere-per-la-morte” che Heidegger indica con una valenza altamente positiva, in quanto rende autentiche le scelte e, con esse, la vita (cosa che non potrebbe avvenire in una prospettiva di vita privata della sua essenza bipolare: bene-male, gioia-dolore, e così via). La scelta della morte, dolce o amara che sia, mira a rimuovere per l’ennesima volta la morte stessa dal panorama umano. Siamo di fronte ad un’ennesima variazione del nichilismo e della volontà di potenza ad esso correlata che sprigiona nei nostri tempi una specie di gas mortifero capace di guastare tutto e tutti.

Nessuno ha il diritto di stabilire il valore degli ultimi istanti (giorni, ore, minuti?) di una persona in base alle proprie idee sul fine-vita. Nessuno è in grado di sapere che cosa penserà tra un mese, tra una settimana. Domani. Nessuno può escludere che proprio alla fine, nella fine, si possa cogliere il valore ed il senso della propria esistenza: a meno che non si possa dimostrare – qui ed ora – che l’uomo non è un essere intimamente aperto alla trascendenza.

Per Umberto Veronesi, uno dei nostri grandi sostenitori del diritto a morire (ma non a quello di nascere) l’eutanasia permette di “abbreviare con un atto di pietà le sofferenze del malato”. Ma da quanto si è visto 1) non possiamo essere certi che il “malato terminale” sia davvero “terminale” (ci sono casi di guarigione che la scienza medica non sa spiegare), 2) non possiamo essere certi che l’intenzione del malato (anche ammesso che sia stata registrata in un testamento) sia quella che noi supponiamo 3) la pietàintrinseca in un atto che porta non alla guarigione o all’alleviamento delle sofferenze ma alla morte di un individuo è moralmente quantomeno discutibile.

Abbreviare il processo che porta alla morte” potrà anche suonare agli orecchi di qualcuno come un atto da buon samaritano, ma si deve considerare che se passa questo principio resta poi da stabilire perché mai un malato terminale di 89 anni possa avere accesso all’eutanasia e poniamo un bambino con gravissime malformazioni no (con il consenso dei genitori). E nel caso dei malati di mente? Molti di loro, per ricordare la stravagante battuta di Indro Montanelli, non sono in grado di rendersi conto di nulla, nemmeno di andare in bagno da soli. Che si fa?

E come si misura il dolore? Come mettere in rapporto il dolore fisico a quello mentale? Ci sono persone in stato di gravissima depressione, che magari hanno tentato più volte di suicidarsi, senza riuscirci. Daremo una mano misericordiosae pietosa anche a loro?

Detto questo, c’è un altro aspetto della controversia che mi pare meritevole di particolare attenzione, sorprendente e ad un tempo illuminante circa la perversione mortifera con cui i sostenitori dell’eutanasia per tuttimascherano ogni male travestendolo da bene. Sempre per Umberto Veronesi, l’alimentazione artificiale delle persone in stato di coma costituisce un intervento medico, quindi assimilabile ad una forma di accanimento terapeutico. I malati gravissimi, è questo il suo parere, possono tranquillamente essere uccisi tagliando loro acqua ed alimenti. Lasciati morire per fame e per sete, in nome della misericordia che si deve ad ogni essere umano che soffre. Tra le altre cose, riferendosi alla legislazione olandese, Umberto Veronesi afferma che quest’ultima è degna di ammirazione “in quanto ha inserito l’eutanasia e il suicidio assistito non solo all’interno di un quadro di riferimento che si occupa globalmente delle cure di fine vita, ma soprattutto all’interno di una concezione aperta della libertà personale di ognuno (il cui cardine è la volontà del malato): si nota una grande attenzione al recupero dell’umanità come valore preminente. Ne dà un’interessante testimonianza una ricerca condotta a Utrecht nel centro oncologico di terzo livello e pubblicata il 29 giugno 2005 sul «British Medical Journal», il periodico scientifico di riferimento per tutti i medici. I ricercatori si sono chiesti quali effetti abbia la morte con eutanasia sui familiari e sugli amici stretti di malati oncologici terminali, […].. Gli autori – prosegue Veronesi – che si sono avvalsi di un questionario molto sofisticato, volto a riprodurre i lineamenti delle emozioni, […] hanno mostrato risultati importanti. Primo fra tutti il fatto che i familiari e gli amici delle persone che avevano chiesto e ottenuto l’eutanasia mostravano generalmente un grado di stress minore rispetto a quelli del secondo gruppo. Una morte innaturale, come un suicidio, è causa di intense reazioni di dolore nei membri della famiglia e, spesso, di inconsci sensi di colpa. Per analogia, si pensava quindi che potesse verificarsi un’intensa reazione di dolore anche all’eutanasia, nella misura in cui viene considerata una morte non naturale. Non è stato così. E’ emersa, fondamentale, la rivelazione che l’aver potuto dare l’addio al malato in un’atmosfera di consapevolezza da entrambe le parti ha in qualche modo reso meno dura e aspra la reazione di dolore provocata dalla perdita. Lo studio è importante anche perché analizza i fattori di rischio per lo sviluppo del dolore traumatico, cosa diversa dalla normale reazione di dolore alla morte di qualcuno che ci è caro, in quanto implica situazioni in cui i sintomi del dolore hanno una durata troppo lunga o troppo corta, sono troppo intensi o troppo poco intensi, oppure insorgono troppo tardi. Questo tipo di dolore, che può dar luogo a un’incapacità di elaborare il lutto, è associato a fattori di rischio ben precisi”.

L’eutanasia avrebbe insomma il vantaggio di diminuire lo stress nei familiari. Questo anche a costo di lasciar morire il proprio congiunto di fame e di sete: il valore supremo è la riduzione della fatica, del logorio di chi presta assistenza.

L’argomento a sostengo di questa tesi paradossale è insidioso: solo i medici possono prescrivere questo tipo speciale di alimentazione e solo medici sono in grado di introdurre nel corpo questo speciale nutrimento attraverso una sonda nasogastrica o altra modalità e che solo medici possono controllare nel suo andamento, anche ove l’esecuzione sia rimessa a personale infermieristico o ad altri. Quando l’alimentazione e l’idratazione si svolgono in tali condizioni esse perdono i connotati di atto di sostentamento doveroso e acquistano quello di trattamento medico in senso ampio. [Cfr. Parere della Commissione Veronesi su nutrizione e idratazione artificiale nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza, La natura dell’idratazione e della nutrizione e il ruolo dei medici]

Sarebbe però interessante chiedersi se con questo argomento non si confondano il fine con il mezzo ed il cosa con il come. Acqua e cibo non guariscono alcuna malattia: non sono medicine. Il fine dell’alimentazione – in qualsiasi modo sia essa erogata – non è la guarigione dell’individuo, ma il suo sostentamento. Allo stesso modo, se fosse un problema la modalità con cui il l’alimentazione viene erogata, allora dovremmo allo stesso modo concludere che qualsiasi altro malato che si trovasse nell’impossibilità di alimentarsi da solo (i bambini – prima e dopo la nascita- gli anziani che non sono più autosufficienti, etc.) verrebbe a trovarsi vittima di una forma di accanimento terapeutico (che come tale dovrebbe sempre essere messa in discussione).

Di fronte alla tentazione di accelerare la morte di chi sta male, valgono sempre le parole di Evangelium vitae n. 66: “Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante ‘perversione’ di essa: la vera ‘compassione’, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza”.

I sostenitori dell’eutanasia basano le loro argomentazioni sul coinvolgimento emotivo di chi li ascolta: toccano le corde della compassione, presentano la loro “soluzione” come un gesto di pietà doverosa. Un atto di libertà. Nel rispetto pieno della dignità umana. Come non essere d’accordo con questa richiesta del morire senza dolore, della soluzione migliore per porre fine ad una malattia il cui esito sarebbe (come abbiamo visto il condizionale è d’obbligo) scontato? Tuttavia a ben vedere la forma seducente di questo messaggio nasconde un significato spaventoso, che è tutto nella risposta stessa che converte la migliore soluzione nella soluzione finale: l’assassinio come atto supremo della compassione e dell’amore al prossimo. Ed il cortocircuito logico è così chiuso.

Chissà se i sostenitori dell’eutanasia si rendono conto che una società di sani e perfetti, di felici e contenti è solo una tragica illusione, un inganno che ha come scopo l’assoggettamento e la manipolazione dell’uomo. Chissà se i sostenitori dell’eutanasia si ricordano quali sono i loro cattivi maestri. I maestri del Nichilismo estremo, che avvelena i nostri tempi. Vorrei ricordare, tra i tanti possibili, almeno un paio di passi sintomatici che potrebbero tranquillamente trovarsi in un’intervista contemporanea, su un giornale qualsiasi:

“Prescindendo dalle istanze che la religione pone, si può ben chiedere: perché dovrebbe essere più lodevole per un uomo invecchiato, che sente il declino delle proprie forze, attendere la propria lenta consunzione e il disfacimento, che non porre termine in piena coscienza alla propria vita? In questo caso il suicidio è un’azione del tutto naturale e a portata di mano, che, come vittoria della ragione, dovrebbe giustamente suscitare rispetto: e lo ha anche suscitato, in quei tempi in cui i capi della filosofia greca e i più forti patrioti romani solevano morire dandosi la morte da sé. Al contrario la brama di continuare a trascinarsi di giorno in giorno, fra angosciose consultazioni mediche e in penosissime condizioni di vita, di giungere, senza forze, ancor più vicino al termine della propria vita, è molto meno rispettabile. Le religioni sono ricche di scappatoie contro l’istanza del suicidio. Con esse si ingraziano coloro che sono innamorati della vita”.

Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, 1886

 

 

 

“In una determinata condizione è indecoroso continuare a vivere più a lungo. Il continuare a vegetare in vile dipendenza dai medici e dalle loro pratiche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe attirare su di sé, nella società, un profondo disprezzo. I medici, dal canto loro, dovrebbero essere i mediatori di questo disprezzo – non ricette, ma ogni giorno una nuova dose di nausea di fronte ai loro pazienti”.

Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, 1888

 

 

Curioso, vero? Forse a pensarci bene non tanto.

Sì, proprio lui: Nietzsche.

Il profeta della volontà di potenza, dell’oltre-uomo.

Della vita senza senso.

Il profeta del nichilismo: della negazione di ogni Trascendenza, di ogni valore, compreso quello della vita stessa. Chissà come mai i sostenitori dell’eutanasia – che ne siano consapevoli o meno poco importa – si rifanno proprio ad un filosofo come questo.

Qual è il legame tra nichilismo, negazione di ogni valore, negazione di Dio, ed eutanasia?

L’aveva capito benissimo Dostoevskij: “se non c’è Dio, tutto è lecito, anche il delitto” (Fratelli Karamazov). Prepariamoci dunque a tornare, con la scusa della misericordia, all’inizio della storia umana, a quello stato iniziale che il filosofo Thomas Hobbes aveva esemplificato con l’espressione “homo homini lupus” (letteralmente “l’uomo è un lupo per l’uomo”). Prepariamoci: quando si perde di vista il senso della sacralità, dell’inviolabilità della vita umana, ogni delitto diventa possibile.

In nome della misericordia, logico.

 

 

 

Alessandro Benigni

(pubblicato in Notizie Pro Vita, edizione cartacea, Marzo 2015)

 

 

 


Note

[1] http://www.documentazione.info/stato-vegetativo-ecco-alcuni-casi-di-risveglio; cfr. anche http://www.uccronline.it/ – casi e testimonianze di risvegli.

[2] La pratica dell’eutanasia è a oggi legale in alcuni paesi europei come il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, mentre il suicidio assistito è ammesso in Svizzera e in Germania non è considerato reato.

[3] Esser-ci (da-sein) per Heidegger è sinonimo di “uomo”.