L’attaccamento intrauterino

18237730_sL’ATTACCAMENTO MADRE-BAMBINO PRIMA DI NASCERE

Il significato del termine attaccamento è intuitivo: si tratta, nell’infanzia, di un legame duraturo con una o più persone specifiche ed emotivamente significative, in primo luogo la madre. Generalmente si ritiene che i legami di attaccamento comincino a svilupparsi fra i 2 e i 7 mesi di vita dell’infante, contemporaneamente alla capacità di riconoscere le persone familiari. Considerato dalla parte dei bambini, l’attaccamento è selettivo nel senso che si concentra su persone specifiche e non su altre. Inoltre, nel bambino è riscontrabile una forte ricerca della vicinanza fisica della persona o delle persone oggetto dell’attaccamento, da cui ricava benessere e sicurezza. Infine, quando il legame di attaccamento viene interrotto, il bambino va incontro al timore di perdere la persona amata e vissuta come indispensabile per il proprio Sé, causa della possibile insorgenza della cosiddetta “angoscia da separazione”. I legami di attaccamento rappresentano per il bambino un fondamentale punto di partenza per intraprendere il proprio viaggio nella vita e, nello stesso tempo, un “luogo” sicuro al quale poter ritornare in caso di incertezze, pericoli e frustrazioni.

L’attaccamento materno-fetale

La teoria dell’attaccamento è dovuta allo psicologo inglese John Bowlby (1907 – 1990) che la introdusse all’inizio degli anni 50 del secolo scorso, influenzando profondamente la ricerca scientifica non solo nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva, ma anche in altri campi come, per esempio, l’etologia e la sociologia, fino ad espandersi agli studi  sui rapporti madre-feto in gravidanza considerati sia dalla parte materna sia da quella del bambino ancora non nato.

Di fatto numerose ricerche hanno dimostrato, non soltanto che legami di attaccamento materno-fetale sussistono, ma anche che la natura e la qualità delle relazioni che si stabiliscono fra la gestante e il bambino che deve nascere sono di grandissima importanza perché influiscono sui rapporti di attaccamento madre-bambino non solo durante la gravidanza, ma anche dopo la nascita, soprattutto sullo sviluppo mentale e affettivo nel corso dell’infanzia e oltre. Una parte non trascurabile è anche riconosciuta alla relazione fra padre e bambino che deve nascere, ma questa è meno studiata e comunque apparentemente meno influente rispetto a quella fra madre e figlio. Infatti, mentre l’attaccamento fra madre e bambino che deve nascere cresce con il progredire della gestazione, quello paterno si sviluppa prevalentemente nel primo trimestre di gestazione, per mantenersi poi ad un livello costante fino alla sua fine.

Vi è poi da considerare la rilevante differenza riscontrabile fra le relazioni mentali, emotive e pratiche della madre verso il bambino che deve nascere e quelle del padre, sostenute dalle differenti immagini che i due genitori si creano del figlio atteso.

Il bambino non nato nell’immaginazione dei genitori

In generale, come nota la psicologa Silvia Vegetti Finzi, “la donna tende ad immaginare il bambino ancora come parte di se stessa, all’interno del suo corpo e della sua mente. Lo nutre di fantasie mutevoli, in gran parte inconsce, che si riallacciano alla sua stessa infanzia e ai suoi sogni di bambina, quando fantasticava un figlio per sé giocando alle bambole […] E se lo immagina già nato, un bambino ancora molto piccolo, da tenere racchiuso fra le braccia, da nutrire, coprire, riscaldare, coccolare. Mentre l’uomo immagina di solito un bambino reale, già nato e magari un po’ cresciuto, un trottolino con le scarpine ai piedi, pronto a seguirlo nelle sue attività. Pensa di giocare con lui, di tenerlo vicino mentre si dedica al bricolage […]. Oppure di portarlo con sé allo stadio, in montagna, in barca, a pescare lungo un fiume […]. Prima ancora che nasca, proietta già il figlio in una realtà futura, dai contorni precisi, come i comportamenti e le azioni che lo legheranno al bambino. E’ quindi un modo già molto attivo, concreto di immaginare il figlio e la relazione con lui, basato sul fare insieme” (Vegetti Finzi S., Battistin A.M., A piccoli passi. La psicologia dei bambini dall’attesa ai cinque anni, Mondadori Editore, 1997).

Lo sviluppo dell’attaccamento è certamente favorito, da parte della maggioranza delle gestanti, dalla crescente consapevolezza che il bambino che portano in grembo, soprattutto a partire dal secondo trimestre di gravidanza, è un essere attivo, sensibile, in grado di apprendere e di interagire con gli stimoli provenienti dal corpo materno e dall’ambiente. Anche per questa ragione, l’attaccamento non può essere considerato semplicemente il risultato di una dipendenza di natura meramente biologica, bensì il segno di una relazione affettiva profonda tra madre e bambino ancora non nato.

I fattori che favoriscono l’attaccamento materno-fetale

Lo sviluppo dell’attaccamento prenatale è sostenuto da numerosi fattori il cui contributo è stato valutato secondo varie scale di misura. Fra questi fattori un ruolo particolarmente importante è stato riconosciuto al sostegno emotivo, affettivo e pratico, che viene garantito alla gestante nell’ambito della famiglia in termini di concordia e di solidarietà con il coniuge e di buon rapporto con la madre, specialmente nelle gestanti in età molto giovane. Una notevole importanza è anche riconosciuta, nello sviluppo dei sentimenti di attaccamento, all’assistenza di accoglienti ed efficienti servizi sanitari e, in generale, ad un contesto sociale partecipe e solidale. I sostegni familiari e sociali risultano particolarmente critici nel favorire o compromettere i processi di attaccamento materno-fetale.

Numerosi sono i fattori di rischio che possono compromettere l’attenzione, le cure, i pensieri, le emozioni, i sentimenti, le fantasie , l’insieme insomma che sostanzia la natura e la qualità dell’attaccamento fra madre e bambino ancora non nato. Fra i fattori di rischio di dimostrata pericolosità in tal senso possono essere ricordati: la giovane età e l’inesperienza, le condizioni economiche disagiate o precarie, il modesto livello culturale, le esperienze infantili negative, gli stati di stress prolungati, le esperienze di violenza, i comportamenti devianti come la tossicodipendenza, l’ansia, la depressione. Non è infrequente che disturbi della personalità accompagnati da comportamenti devianti portino alcune gestanti bel lontane da un adeguato sviluppo dell’attaccamento verso il figlio che deve nascere. In particolare si evidenziano manifestazioni di insofferenza, di aggressività, di pensieri punitivi verso il feto, soprattutto quando le condizioni ambientali sono difficili dal punto di vista socioeconomico, morale e spirituale.

Un fattore di rischio verso lo sviluppo dell’attaccamento prenatale è frequentemente riscontrabile in precedenti esperienze di aborti o di morti immediatamente successive alla nascita. L’esperienza di un legame che si spezza bruscamente con la perdita del bambino lascia i genitori in una situazione di perdita e di lutto che può durare anni, compromettendo la possibilità di instaurare normali processi di attaccamento in occasione di una successiva gravidanza.

Naturalmente si tratta di fattori di rischio di peso assai variabile da gestante a gestante e spesso con esiti contrastanti. Per esempio, alcune ricerche sugli effetti della depressione, hanno dimostrato che in alcune gestanti quello stato dell’umore pregiudica l’attaccamento prenatale, in altre invece lo esalta. Queste situazioni e tutte quelle che possono compromettere l’instaurarsi e lo svilupparsi di una normale relazione di attaccamento prenatale dovrebbero essere precocemente individuate non soltanto per il buon andamento della gravidanza e a vantaggio del bambino ancora non nato, ma anche per costruire i presupposti per lo sviluppo dei rapporti di attaccamento dopo la nascita che finiranno per influenzare le capacità emotive e sentimentali di tutta la vita.

Considerato dalla parte del bambino non ancora nato, l’attaccamento materno-fetale, da parte degli studiosi, è stato analizzato da un numero elevato di punti di vista che, per esemplificare, si possono riassumere nel fondamentale quesito: nel periodo prenatale il bambino può “pensare” e condividere gli stati d’animo della madre?

Gli studiosi di psicologia fetale lo sostengono, basandosi su varie risultanze scientificamente verificate, fra cui si possono ricordare quelle che hanno dimostrato che il feto “condivide” gli stati d’animo della madre, a partire all’incirca dal sesto mese di gravidanza. I pensieri, gli stati dell’umore, i sentimenti materni passano al bambino non ancora nato per via ormonale. Una madre sottoposta a stress intensi e prolungati, per esempio, produce certi ormoni che, attraverso la placenta, possono passare al feto e influenzarne addirittura la personalità. Bambini nati da madri a lungo emozionalmente provate hanno mostrato personalità con tratti disturbati nella sfera emotiva; mentre bambini nati da madri che hanno potuto gestire la loro gravidanza in sicurezza e tranquillità, in un ambiente familiare e sociale sereno e solidale, sono risultati immuni da problemi emotivi.

Naturalmente, alle tesi degli studiosi che sostengono la formazione di significativi legami di attaccamento materno-fetale non sono mancate le critiche. I critici sostengono che l’originale teoria di Bowlby è stata costruita sull’attaccamento, risultato dell’interazione madre-bambino, esaminabile dopo la nascita, mentre, durante la gravidanza, quello che si può studiare veramente è il sentire della madre e non quello del feto. In realtà, queste critiche sembrano non avere fondamento. Infatti, se questo era indubbiamente vero al tempo di Bowlby è anche provato che, nei decenni successivi, i ricercatori hanno potuto valersi di un numero crescente di metodi e di mezzi di indagine grazie ai quali sono stati in grado di affinare le conoscenze sullo sviluppo fisico prenatale del prodotto del concepimento, ma anche il progredire intrautero delle sue capacità di condividere gran parte delle esperienze psicologiche ed emotive della madre. Basti ricordare gli strumenti di indagine per immagini e di stimolazione del feto per rendersi conto della validità del pensiero di Bowlby e della miriade di ricercatori che ne hanno confermato e sviluppato le tesi, e per sottrarre alla critiche il terreno su cui poggiano.

La disponibilità di sofisticati strumenti di indagine, in primo luogo l’ecografia, ha consentito  dunque l’osservazione diretta, nel corso della vita fetale, non solo dello sviluppo di organi e apparati, ma anche della comparsa e della evoluzione di capacità percettive e di reazioni psichiche ed emotive che fanno del bambino che deve ancora nascere, verso la fine della 32ma settimana di gestazione, un essere preparato per entrare nel mondo, già dotato delle medesime capacità del neonato.

In altre e semplici parole, si può dire che la vita intelligente del bambino comincia quando è ancora nel grembo materno. Lo si può dimostrare in base all’osservazione di alcuni fondamentali elementi: la veglia e il sonno, i movimenti fetali, le capacità sensoriali – l’udito, il gusto, la vista, il tatto, l’olfatto – le capacità di attenzione e di apprendimento, che abbiamo già esaminato, la comparsa di tratti che definiscono la personalità.

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Fonte: Tratto da Leggere per Crescere, Anno X n. 2 – Inverno 2014