Siamo alla settima puntata. Nelle prime sei riflessioni (vedi la prima puntata, la seconda, la terza, la quarta, la quinta e qui la sesta) abbiamo proposto l’idea di una brevissima analisi storico-filosofica (brevissima e alla portata di tutti) per smontare quell’idea oggi tanto diffusa secondo la quale non esisterebbe affatto specifica ed originale natura umana, ma che al contrario uomini e animali sarebbero sostanzialmente disposti su una stessa linea evolutiva (e quindi senza alcuna differenza ontologica – ovvero di valore – tra loro).
Per meglio comprendere questa malattia culturale – che non esito a definire una vera e propria deriva psicotica, diffusa ad arte da sofisticate e pervasive tecniche di manipolazione mentale ed ingegneria sociale – riprendiamo questa brevissima esposizione e mostriamo, con i grandi pensatori dell’Occidente, come le pur diverse posizioni antropologiche confermino quanto l’evidenza più incontrovertibile attesta chiaramente ogni giorno: l’uomo non è assimilabile a nessun altro animale vivente.
Il nostro excursus prosegue oggi con l’analisi di alcuni aspetti del dibattito politico-filosofico del periodo umanistico – rinascimentale, che risultano maggiormente correlati alla discussione sul concetto di natura umana.
Un nuovo tema, tra i tanti di assoluto rilievo per la nostra trattazione, è costituito senza dubbio dal dibattito politico sulla migliore forma di governo possibile, che implicitamente chiama in causa il problema della definizione della natura umana. E’ noto l’interesse etico, sociale e politico degli umanisti, ed in particolare dei primi umanisti fiorentini che mostrano fin dall’inizio un interesse filosofico del tutto originale, relativo alla problematica sociale e politica. Tutti impegnati in prima persona nella gestione dello Stato, essi presentano la loro città come l’erede diretta della Roma repubblicana, esempio di libertà, baluardo contro la tirannide, che deve la sua forza alla concordia e alla pacifica competizione esistente tra i suoi cittadini liberi e uguali. All’esaltazione propagandistica di un’oligarchia di mercanti e di finanzieri si accompagna poi anche un vero e proprio culto per l’antichità romana e una valutazione positiva della storia, capace di esercitare un’opera di insegnamento e di guida nella vita politica presente. Va detto che sullo sfondo di queste affermazioni resta la concezione dello Stato propria di Aristotele, concezione molto diffusa nel Medioevo e nella Scolastica, ma nuova e particolarmente innovatrice è la sottolineatura del carattere laico e puramente umano dell’istituzione statale. Lo Stato deve la sua saldezza e la sua forza non al fatto di essere strumento provvidenziale, che ha ricevuto da Dio il compito di mantenere la pace e la giustizia tra gli uomini, ma all’onestà e alla coscienza civile dei suoi membri, all’efficienza e coesione delle sue istituzioni e all’abilità pragmatica dei suoi governanti. Lo Stato è insomma possibile in quanto la natura umana ne consente la realizzazione. Occorre dunque preservare lo Stato da ogni degenerazione negativa, rifuggendo la tirannide come il peggiore dei mali: ma – come già accadeva per Platone – si dovrà sempre tenere conto della corrispondenza tra natura umana e costituzione dello Stato. Per fare ciò gli intellettuali devono diventare insieme i maestri e i medici dei loro simili – quindi del corpo sociale e dello Stato. Si riscoprono così le teorie politiche platoniche, che portano alla formulazione di un progetto per un “perfetto” Stato principesco, retto da un signore coadiuvato da oculati consiglieri e funzionari. Gli intellettuali del tempo sono ben consapevoli del ruolo politico ed educativo che essi devono svolgere per formare un “ottimo” cittadino e un “ottimo” principe: costui, dopo aver compiuto gli studia humanitatis, deve governare nel rispetto della libertà, con giustizia, magnificenza e paterna sollecitudine. L’uomo è dunque un essere che per natura ha bisogno di educazione.
Marsilio Ficino ci spiega infatti (per esempio nel proemio al Politico di Platone) che il principe-filosofo si deve circondare di consiglieri, segretari sapienti e accorti. Baldassar Castiglione, al servizio del marchese Gonzaga a Mantova, poi del duca Guidobaldo da Montefeltro a Urbino e infine nunzio papale in Spagna, nella sua celebre opera Il libro del cortegiano (siamo nel 1528: un vero e proprio manuale del comportamento corretto dell’uomo di corte), individua il suo fine ultimo nel guidare il signore nella difficile arte della politica, sconfiggendo l’ignoranza e la presunzione che rendono i governanti fantocci pieni di “stoppa e strazzi”. Ma torneremo a parlare di questi aspetti più avanti, con il protagonista indiscusso della discussione politica del ‘500 intorno al concetto di natura umana: Niccolò Machiavelli.
Ora ci preme invece passare ad un breve accenno alla questione dell’incontro con l’altra–umanità, che si verifica dopo la scoperta dell’America. Chi sono questi “indios”, che agli occhi degli europei appaiono come “omuncoli senz’anima”? C’è da dire che mentre la straordinaria ricchezza di alcuni di quei Paesi appare subito evidente agli europei (oro, argento, pietre preziose – almeno in un primo tempo – sembrano essere riserve inesauribili), non lo stesso si può dire dell’atteggiamento degli europei del ‘500 verso un’altra forma di ricchezza che per noi oggi è – o dovrebbe essere – altrettanto evidente: la diversità culturale della famiglia umana. E’ probabilmente per giustificare agli occhi della cristianità e della civiltà europea la pianificazione di una conquista brutale che in un primo momento si sottolineano solo gli elementi negativi delle civiltà – pur evolute – del Messico e del Perú e la crudeltà di questi selvaggi che si muovono nudi e curiosamente impiumati. Le società azteca, maya e quella inca sono quindi denigrate a causa dell’assenza sul piano economico-tecnologico di strumenti come la ruota, la siderurgia, la domesticazione degli animali e per la presenza di consuetudini come il cannibalismo e i sacrifici umani. E’ da qui che si deduce una differente posizione ontologica di questi “omuncoli” rispetto alla gloriosa ed avanzata civiltà europea. Anche le creazioni più evolute come la magnifica architettura monumentale, la ricchissima oreficeria, l’agricoltura e l’organizzazione sociale sono demonizzate ed attribuite appunto ad un’opera diabolica che sembra necessario distruggere per impiantare al suo posto la civiltà dei conquistatori. Addirittura, si dà il caso di alcuni teologi che forniscono giustificazioni teoriche al massacro e alla distruzione perpetrata dai soldati e dagli avventurieri spagnoli e portoghesi. Quello che deriva da questo scempio è poi un dibattito acceso a proposito dell’anima di cui non sarebbero dotati gli indigeni primitivi: per qualcuno non solo essi sono all’oscuro dell’unica verità che conta – quella della religione rivelata di Cristo – ma per la loro salvezza forse il figlio di Dio non si è immolato. Essi sono definiti appunto “omuncoli” e, quasi come vie di mezzo tra gli umani e le bestie, qualcuno pensa che non abbiano un’anima individuale.
Di conseguenza, non sono certo colpevoli di assassinio i conquistadores che direttamente con le proprie armi, o indirettamente, per lo sfruttamento disumano, ne causano la morte. In sintesi, l’indigeno americano sarebbe dunque uno “schiavo per natura”. Si ricorderà che di fatto anche la teoria aristotelica della “schiavitù naturale” di alcuni esseri umani ammetteva questa conclusione e quindi è proprio Aristotele che viene nuovamente utilizzato a sostegno ideologico della conquista armata dell’America. Ne parla in particolare l’umanista cristiano spagnolo Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573) autore, nel 1545, di Democrates alter, sive de iustis belli causis (Democrate secondo, ovvero sulle giuste cause di guerra). In quest’opera Sepúlveda, citando Aristotele (che nella Politica sosteneva che “tutti coloro che sono distanti dai loro simili come il corpo dall’anima – in questa condizione si trovano tutti coloro i quali valgono solo per l’uso delle loro forze fisiche, e la belva dall’uomo, e questo è il loro maggior vantaggio – sono schiavi per natura”, afferma che gli indigeni americani, utilizzati dagli spagnoli unicamente come manodopera, hanno natura di schiavi. L’assenza di leggi, la mancanza di scrittura, la libidine, l’antropofagia, la loro viltà e slealtà confermano inconfutabilmente l’inferiorità morale e intellettuale degli indios, classificati come sottospecie umana, Homunculi. Non è certo la prima volta che la storia umana vede affermarsi quest’idea di un’umanità suddivisa in classi, o specie, dai “barbari” ai neri d’Africa e poi d’America, agli “Untermenschen”: i casi sono tantissimi e con mille sfaccettature.
Ma al di là della questione etica, il punto essenziale è che tali suddivisioni – per quanto siano profondamente razziste – sono logicamente possibili solo in quanto si ammette implicitamente un concetto di natura umana che differenzia l’umanità dagli animali e quindi, altrettanto implicitamente, una natura umana unica e riconoscibile, che che faccia da metro di giudizio e da modello ideale cui paragonare tutte le altre creature.
Veniamo quindi all’altro grande tema che si interseca alla discussione politica e filosofica del ‘500 – cui fa da sfondo l’idea di natura umana: il progetto utopico.
Anche in questo caso le voci da ascoltare sarebbero tantissime. Dovremmo fare riferimento almeno a More, Bacon e Campanella. La necessità di sintesi ci costringe a rimandare ad un secondo momento l’analisi dei nodi tematici principali esibiti da questi autori. Fermiamoci invece un attimo sul concetto generale di utopia.
Che cos’è l’utopia? L’utopia – letteralmente: posto che non c’è, dal greco ou-topia) – è un luogo della mente e non della realtà esterna. La mente come teatro del progetto di ciò che si deve realizzare in un secondo tempo nella realtà esterna: l’utopia è dunque originariamente un progetto ideale. Il termine venne coniato all’inizio del Cinquecento da Tommaso Moro, che dette questo nome alla sua opera Utopia. Il termine ebbe poi considerevole fortuna e, col tempo, è passato a indicare tutti quei luoghi della mente che, a partire dalla Repubblica di Platone fino ai nostri giorni, vengono costruiti per descrivere un mondo ideale dalle caratteristiche positive da contrapporre a una realtà che, viceversa, è giudicata negativamente. L’utopia è quindi un progetto, di cui l’artefice e l’oggetto è – ad un tempo – sempre l’uomo.
Alcuni grandi scrittori hanno declinato l’utopia in sensi diversi, pensiamo a Orwell o a Borges, fino a far assurgere il termine, nel linguaggio comune, a modello universale che intende richiamare a un mondo di cose positive e impossibili, come quando di una bella idea si dice “questa è pura utopia, non si realizzerà mai”. In origine, come s’è detto, non era affatto così. I filosofi del Rinascimento infatti concepivano la filosofia come progettazione sociale, vale a dire come definizione delle linee-guida per l’azione individuale e collettiva. Ma al centro di ogni utopia sta sempre e comunque l’uomo, con la sua natura particolare che merita appunto di essere protetta, indirizzata, educata, progettata. Indirizzata, s’intende, con leggi adeguate.
Ugo Grozio
E a proposito di leggi non possiamo non fare riferimento alla questione del diritto ed in particolare all’idea di diritto naturale, di cui gli uomini sono dotati dalla nascita (per natura). Il riferimento a Ugo Grozio, fondatore del giusnaturalismo, è d’obbligo. Il giusnaturalismo (termine che significa “teoria del diritto di natura”) ha infatti il suo luogo d’origine nell’opera di Ugo Grozio. Di formazione giuridica e teologica, Grozio viene processato e condannato al carcere a vita ma riesce a fuggire in Francia, dove partecipa ai dibattiti molto vivaci tra libertini e cattolici; poi si trasferisce definitivamente a Parigi, dove muore nel 1645.
Io suo sistema concettuale si basa sull’affermazione di un diritto di natura, cioè di norme che esprimono la natura razionale dell’uomo. Tali diritti dovrebbero essere il fondamento di ogni norma positiva e, comunque, ad essi dovrebbe far riferimento la legislazione degli Stati. I principi su cui poggia il diritto di natura dovrebbero essere rispettati dai governanti. Del Giusnaturalismo farà parte integrante sia il concetto di stato di natura che quello di stato civile. Dal primo al secondo si passa attraverso un patto o contratto sociale, mediante il quale ci si accorda tra individui per superare lo stato di natura e dare la sovranità ad una o più persone. Così si concretizza l’aspirazione della cultura politica del Seicento al superamento di una situazione di disordine, che soprattutto le guerre di religione avevano provocato, e alla realizzazione di un ordine politico razionale e pacifico. A proposito di Grozio, di grande rilievo sono anche sue le posizioni sulla religione: il cristianesimo evangelico viene da lui identificato con la religione naturale, vera e unica, riducibile a poche verità indubitabili: c’è un solo Dio, giusto e provvidente, creatore di tutto l’universo. Atto creativo il cui vertice è naturalmente – ancora una volta – l’uomo.
L’uomo è caratterizzato – per Grozio – da una natura speciale, di cui prima di tutto il linguaggio e l’organizzazione razionale della vita associata sono espressioni e facoltà uniche nel mondo animale.
Leggiamo un beve – illuminante – passo:
Ma nell’uomo adulto, che sa coordinare le proprie azioni così da comportarsi in modo analogo in circostanze analoghe, è il caso di riconoscere, oltre che una spiccatissima tendenza alla vita sociale – per realizzare la quale egli, unico fra gli esseri animati, possiede il mezzo appropriato, ossia il linguaggio – anche la facoltà di conoscere e di agire secondo principi generali: e quanto si riferisce a tale facoltà non è certo comune a tutti gli animali, ma è proprio della natura umana. Questa attività, conforme alla ragione umana, rivolta a conservare la società, che abbiamo testé grossolanamente delineata, è la fonte del diritto propriamente detto; il quale comprende l’astenersi dalle cose altrui, la restituzione dei beni altrui e del lucro da essi derivato, l’obbligo di mantenere le promesse, il risarcimento del danno arrecato per colpa propria, e il poter essere soggetti a pene tra gli uomini. Da questa nozione del diritto ne è discesa un’altra più ampia: poiché infatti l’uomo possiede, al di sopra degli altri animali, non soltanto l’impulso dell’associazione di cui si è detto, ma anche il criterio – per valutare le cose – future oltre che presenti – piacevoli o nocive, e quelle che possono produrre l’uno o l’altro effetto, appare evidente essere conforme all’umana natura il seguire anche in ciò un giudizio rettamente conformato secondo la norma della ragione umana, senza farsi traviare dal timore, o dalla lusinga di un piacere attuale, e senza farsi trascinare da impulsi inconsiderati; ed è chiaro che ciò che palesemente contraddice a un tale giudizio è contrario al diritto di natura: della natura, s’intende, umana (…). Essendo poi norma di diritto naturale tener fede ai patti (perché era necessario che fra gli uomini vi fosse un mezzo per obbligarsi reciprocamente, e in verità non se ne può immaginare un altro che sia per natura) questa fu appunto la fonte da cui scaturirono i diritti positivi. Coloro infatti che si erano consociati in qualche gruppo, oppure si erano sottomessi a uno o più uomini, si erano esplicitamente impegnati, oppure, data la natura dell’accordo, avevano evidentemente assunto impegno tacito di uniformarsi a ciò che o la maggioranza del gruppo, o coloro a cui il potere era stato deferito avrebbero stabilito. Ciò dunque, che non soltanto Carneade, ma altri ancora dicono: “Quasi madre del giusto e dell’equo è l’utilità”, se parliamo con esattezza, non è vero: perché del diritto naturale è madre la stessa natura umana, la quale, anche se non avessimo bisogno di nulla, ci spingerebbe a ricercare i rapporti sociali; del diritto positivo poi è madre anche l’obbligazione consensuale e, dato che quest’ultima ripete la sua efficacia dal diritto naturale, può darsi anche che il diritto positivo ha la natura per bisavola. L’utilità tuttavia è accessoria al diritto naturale, perché l’Autore della natura ha voluto che noi, presi ad uno ad uno, fossimo deboli e bisognosi di molte cose per vivere bene, in modo che fossimo maggiormente spinti a praticare la vita sociale; quanto al diritto positivo, l’utilità ne fu la causa occasionale, perché quell’associazione o quella sottomissione di cui abbiamo parlato ebbe origine in vista di un vantaggio; quindi anche i legislatori sogliono, o debbono, proporsi come scopo qualche utilità.
(Ugo Grozio, Prolegomeni al De jure belli ac pacis)
[… segue]
Alessandro Benigni
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