Cartesio e il salto metafisico: come si passa dall’io a Dio

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Capitoli precedenti:

  1. Il genio della modernità: Cartesio
  2. Metodo e logica della scoperta: che cos’è la scienza per Cartesio?
  3. Cartesio e la scienza metafisica
  4. Cartesio: come si passa dal dubbio alla certezza assoluta?
  5. La luce della certezza: “Je pense, donc je suis”. Cartesio e la fondazione della conoscenza
  6. Cartesio: cosa c’è di certo, oltre l’io-che-pensa?

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Nel paragrafo precedente avevamo visto come l’acquisizione della prima certezza indubitabile, – l’esistenza necessaria dell’io nel momento stesso in cui pensa -, correva il rischio di essere anche l’ultima.

Dopo la scoperta luminosa del “penso, sono”, l’io non ha più altre certezze immediatamente evidenti cui attingere: non può dire con sicurezza che il mondo esterno è davvero così come viene rappresentato nelle idee-interne-all’io né addirittura può sapere con certezza se il mondo esterno davvero esiste, al di là delle idee-dell’io che mentalmente lo rappresentano .

Si tratta di una condizione di evidente solipsismo (dal lat. solus «solo» e ipse «stesso»), ovvero di una cieca chiusura nel proprio-io che finisce per risolvere (ma anche limitare) ogni realtà nel sé medesimo, così che il mondo esterno verrebbe a trovarsi non solo ridotto alle proprie rappresentazioni soggettive, ma anche, proprio per questo, del tutto inconoscibile e sostanzialmente incomunicabile. Sembrerebbe insomma ripresentarsi daccapo quello scetticismo e quel relativismo che Cartesio si era proposto di superare definitivamente.

Il problema di Cartesio può dunque essere così sintetizzato:

Come liberarsi da questa condizione di chiusura all’interno del proprio-io, in cui l’io ha una certezza assoluta, sì, ma una soltanto (la propria esistenza come essere-che-pensa), e riuscire a conseguire altre conoscenze certe ed incontrovertibili?

Per superare questo ostacolo Cartesio è costretto ad individuare una nuova strategia.

La sua mossa consiste a questo punto in un “salto metafisico“: per poter andare oltre la certezza del “penso, sono“, è necessario fondare l’intera conoscenza umana sull’idea-di-Dio, ed in particolare su un Dio perfetto, quindi immutabile, quindi onnipotente, quindi buono e verace.

Questo passaggio, come vedremo, sarà particolarmente definito alla fine della Quinta meditazione, dove Cartesio arriverà ad affermare esplicitamente che è la nozione di Dio a fondare ogni conoscenza umana.

Come può Cartesio arrivare ad un’affermazione così forte?

Cerchiamo di seguire i passaggi della sua catena argomentativa.

Prima di tutto occorre ribadire che il criterio di verità, in base al quale il filosofo si è mosso fin dall’inizio, è quello dell’evidenza, di una percezione chiara e distinta, incontrovertibile, che fondi il giudizio.

Questo è il criterio che ci ha portato fuori dal dubbio universale: l’identificazione di evidenza incontrovertibile e verità. Detto altrimenti, l’io è riuscito a liberarsi dal dubbio scettico solo in quanto ha stabilito di accogliere come vero solo ciò che si presenta con i caratteri di chiarezza, distinzione, evidenza assoluti.

Se ripensiamo ai precedenti passaggi, però, ricorderemo che questa regola-dell’evidenza non ci metteva ancora al riparo dall’ipotesi di un Dio assolutamente potente ma malvagio, che abbia infuso nell’uomo una tendenza costante ad ingannarsi sempre e su tutto. Questa ipotesi, potenzialmente sufficiente per far crollare tutta la struttura argomentativa cartesiana, verrà dissolta solo dopo aver dimostrato che Dio esiste e che non ha affatto disposto la natura umana ad un auto-inganno costante.
E questo è precisamente quello che Cartesio dimostra nella Terza e nella Quinta meditazione.

Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio

Siamo così giunti al cuore della metafisica cartesiana, che, come da progetto, risulta essere il fondamento della gnoseologia e quindi della scienza intera. Non solo: l’esistenza del mondo, oltre la sua conoscibilità, viene fondata sull’esistenza di un Dio buono e razionale.

Infatti, se fosse impossibile essere certi dell’esistenza di Dio, si perderebbe il fondamento definitivo di quell’evidenza (chiarezza e distinzione) che caratterizza una conoscenza certa.

Vediamo quindi, passo dopo passo, come Cartesio arriva a formulare le sue dimostrazioni dell’esistenza di Dio. Eh, sì: essendo Cartesio, una sola non poteva bastare!

La questione del “dualismo cartesiano” tra l’io-che-pensa e l’estensione: cosa c’è dentro la mente?

Il punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio prende avvio da quella verità incontrovertibile che avevamo raggiunto: siamo certi di esistere, in quanto e fintanto che pensiamo. Certi di esistere: ma come? Come sostanza-pensante, abbiamo detto. La sostanza estesa, fuori di noi, è per ora del tutto inconoscibile, sia nella sua struttura che nel suo funzionamento che addirittura nel suo essere stesso. A rigor di logica, infatti, potrebbe essere tutta un’idea ingannevole della mente.

Quello che qui c’interessa rilevare è che in questo modo Cartesio ha distinto radicalmente due sostanze, due realtà indipendenti tra loro: il pensiero e l’estensione.

E su questo punto, prima di procedere, dobbiamo fermarci un attimo.

Per Cartesio, come si è visto, posso negare di avere un corpo, ma non posso negare di avere una mente. Questo non comporta logicamente che io non abbia un corpo, ma dimostra in modo netto che mente e corpo sono due realtà distinte, appunto: due diverse sostanze.

Il dualismo cartesiano

Siamo così di fronte a quella posizione che viene di solito etichettata come “dualismo cartesiano“, con accezione sempre negativa, in quanto da quest’idea deriverebbe secondo alcuni la possibilità di pensare l’uomo come un ente rinchiuso nelle sue facoltà razionali e quindi indifferente rispetto alla bontà o alla malvagità delle sue azioni concrete.

Nella Seconda meditazione, Cartesio espone però un’idea, una specie di Gedankenexperiment (esperimento mentale) di assoluta chiarezza:

Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. Io non intendo parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confu­se, ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo. Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può negarlo. […]

Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera? Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovano cambia­te, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando lo concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto re­sta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io immagino che questa cera, es­sendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal quadrato in una figura trian­golare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco capace di ricevere un’infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia, percorrere quest’infinità con la mia immagi­nazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare. Ma che cos’è questa estensione? Non è, essa pure, scono­sciuta, poiché nella cera che si fonde aumenta e si trova ad essere ancora più grande quando è intieramente fusa, e molto più grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa è la cera, se non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual è questa cera, che non può essere concepita se non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un’immagina­zione, e non è mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una vi­sione della mente [solius mentis inspectio], la quale può essere imperfetta e confusa, co­me era prima, oppure chiara e distinta, com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e di cui essa è composta.

La realtà operativa della mente-che-pensa e le sue idee

Possiamo a questo punto tracciare un primo bilancio: tutto quello che serve alla conoscenza umana è per il nostro filosofo già dentro la mente. Anche ciò che percepiamo come esterno, può essere compreso solo nella mente e a partire dalla modalità con cui la mente umana, razionale, opera.

Nel famosissimo passo sopra citato, che il deriva direttamente dagli argomenti dello scetticismo classico, Cartesio sta mette a fuoco il suo concetto di sostanza estesa, di res extensa, per definire il mondo che pensiamo come esistente fuori dalla mente, e che ci appare però dentro la mente stessa. La sua analisi è finissima: l’extensio, l’estensione, ci dice Cartesio, non viene dedotta in base ad un processo di astrazione dalle qualità sensibili dei corpi: non si tratta in altre parole di un concetto estratto, sintetizzato con l’esperienza, ma piuttosto di una nozione intuitiva.

Essa è colta dalla mente in un atto di visione diretta e unitaria, dopo la distruzione scettica della certezza sensibile e senza il ricorso all’immaginazione, che rappresenta ancora una facoltà di tipo sensibile, ma con un atto di pura intellezione.

Cartesio ha così posto una strategica differenza tra pensiero e immaginazione. Pensare qualcosa significa concepirla chiaramente e distintamente: nel pensiero troviamo l’evidenza, quindi la verità. Immaginare significa invece raffigurare la cosa sensibile da conoscere, sempre però sensibilmente. Allo stesso modo, l’infinita modificabilità dell’estensione (in questo caso della cera) può essere solo concepita dal pensiero, non ricavata dall’immaginazione. L’estensione, che corrisponde alla sostanza dei corpi, non è quindi un concetto astratto, ma una nozione intuitiva, che si riferisce alla medesima cosa, che era pri­ma oggetto della conoscenza sensibile. Lo stes­so si dica dell’atto di visione (mentis inspectio) che mi consente di coglierla. Come ha scritto efficacemente uno studioso di Cartesio, per lui savoir se réduit à voiril sapere si riduce a vedere —, l’evidenza corrispon­de alla presenza delle cose, colta da una “co­scienza spettatrice“, ossia dalla mente.

Il filosofo è così tagliente e spregiudicato da proporre una questione al limite della fantascienza: quando guardiamo i nostri simili, chi ci dà la certezza che siano davvero esseri umani e non, per esempio, automi?

Abbiamo così messo a fuoco con maggiore chiarezza il problema da risolvere: con il cogito si dimostra la necessaria esistenza della mia-mente-che-pensa. Tutto il resto, fuori dalla mia mente, potrebbe non essere, potrebbe essere solo immaginazione, inganno di un Dio, potrebbe essere altro da quello che credo: potrei essere circondato da automi e non da esseri umani, come mi piace invece credere. Perché no?

Io sono io, ovvero la mia-mente-che-pensa, 2+2 = 4, un triangolo ha 3 lati, ma un pezzo di cera (così come tutto il mondo esterno alla mente) ha proprietà del tutto differenti e assai più confuse. Come faccio a conoscerle? Dobbiamo tornare indietro, quindi, ad ispezionare la mente-che-pensa, con più attenzione.

Se si tratta di una mente-che-pensa, avrà necessariamente dei pensieri, ovvero delle idee. Occorre dunque prendere in esame le idee. Come sono fatte? Da dove vengono?

Anche in questo caso l’analisi di Cartesio è particolarmente stringente.

Prese in se stesse, le idee non sono mai false. Esse sono atti del pensiero, indipendentemente dall’esistenza “reale” del loro oggetto: “sia che immagini una capra o una chimera, immagino l’una non meno che l’altra“, spiega il filosofo.

Allo stesso modo sono sempre veri gli atti di volontà: è sempre vero che in quel determinato momento quel determinato soggetto sta desiderando o avversando quella determinata cosa, quale che essa sia: desiderabile oppure no, buona, oppure cattiva, esistente o inesistente.

Sono solo i giudizi, quindi, ad essere passibili di errore: proprio per questo si rende necessaria un’attenta disamina circa la natura e la provenienza delle nostre idee.

Inizialmente Cartesio individua due tipologie (e due fonti diverse) di idee: l’esterno e l’interno, quindi le idee avventizie e idee fattizie.

Le idee avventizie provengono dal mondo esterno (dal mondo della natura fisica e della percezione sensoriale). Va da sé che non posso che dubitare di idee di questo tipo, visto che per ora l’esistenza stessa di un mondo esterno non è stata dimostrata.

Le idee fattizie sono invece una mia creazione, come quando con l’immaginazione unisco la testa di un leone con il corpo di una capra e creo la chimera. Si tratta di idee evidentemente per nulla affidabili.

Da questa impostazione consegue che se c’è un’idea, dev’esserci una mente-pensante che l’ha pensata. E da ciò deriva che se ci sono in me idee che non ho pensato io, allora esiste necessariamente un’altra mente che le ha pensate.

Ma questo è proprio il caso, come vedremo, dell’idea di Dio.

Cartesio indica poi una terza classe di idee, diverse sia dalle idee avventizie che da quelle fattizie: si tratta di quelle idee del tutto speciali che l’io non ricava dall’esperienza esterna alla mente-che-pensa, ma che al contrario permetto di avere un’esperienza significativa della realtà incontrata, e nemmeno derivano da composizioni arbitrarie della mente stessa. in quanto sono semplici e non ulteriormente disponibili. Per esempio l’idea stessa di pensiero, l’idea di cosa, di ente, di verità, e così via.

E’ a questo punto interessante rilevare che questo ragionamento, volto a verificare la possibilità di uscire dal dubbio scettico, viene posto in essere per l’appunto da una mente-che-dubita. Ma dubitare è una mancanza di conoscenza certa, quindi di una qualità positiva il dubbio stesso rivela un’altra certezza: l’imperfezione dell’io-che-dubita.

La mente-che-pensa è imperfetta e non può darsi da sé la perfezione

Nonostante questa imperfezione della mente-che-pensa, troviamo, all’interno della nostra mente, l’idea di un Essere perfetto. Ma dal momento che la nostra mente, imperfetta e limitata, non può aver prodotto l’idea di Perfezione (non può trattarsi cioè di un’idea fattizia) e dal momento che dall’esterno non mi appaiono perfezioni (non si tratta quindi di un’idea avventizia), non resta che concludere che questa idea di Dio, inteso come Ente assolutamente perfetto e pertanto dotato di sole qualità positive, non può che essere stata messa in noi da Dio stesso.

Quindi Dio esiste

A questo punto si potrebbe obiettare che Dio non è altro che un’idea. Ma, rifacendosi alla prova ontologica di Sant’Anselmo d’Aosta, Cartesio ricorda che non si può ammettere l’esistenza di un Ente perfetto ridotto a sola idea della mente-umana-che-pensa, altrimenti l’Ente mancherebbe dell’esistenza reale e non potrebbe essere perfetto. Il corto-circuito logico di chi ipotizza la riduzione dell’Ente perfetto a sola idea della mente-che-pensa viene così portato a massima evidenza:

  1. viene dimostrata l’esistenza di una mente-che-pensa, per il solo fatto che dubita e s’interroga su ciò che si può conoscere
  2. si dimostra che questa mente-che-pensa è imperfetta (altrimenti non avrebbe di che dubitare) e possiede al suo interno un’idea che non è opera sua
  3. si dimostra così l’esistenza di un altro essere, perfetto (in quanto ha impresso nell’uomo l’idea stessa di perfezione) che è anche creatore della mente-che-pensa e che non può essere ridotto a mera idea-della-mente-che-pensa.

Dio come causa efficiente

Ma non basta. Una prova ulteriore dell’esistenza di Dio viene dedotta dal concetto di “causa efficiente“. Che cosa determina la fuoriuscita delle cose, degli enti (compresa la mia mente-che-pensa) dal nulla all’essere?

Come abbiamo visto, essendo finito, limitato ed imperfetto, l’io non può essere inteso come artefice (causa efficiente) di se stesso. Ironizza Cartesio: se il soggetto avesse tanta forza e potenza da auto-generarsi, si sarebbe generato perfetto e questi problemi non si sarebbero mai posti.

L’uomo non è Dio e sa con certezza di non esserlo: è proprio la meraviglia di fronte all’idea innata di perfezione che lo testimonia.

Da dove viene, quindi, l’essere della mente-che-pensa?

Ecco la risposta del filosofo:

29. Da chi dunque derivo il mio essere? Da me evidentemente, o dai miei genitori, o da qualsivoglia altra causa meno perfetta di Dio; infatti non si può pensare o immaginare qualcosa di più perfetto o anche di ugualmente perfetto.

30. Eppure, se dipendessi da me, non dubiterei, né proverei desideri, né in ogni modo mi mancherebbe qualcosa; infatti mi darei tutte le perfezioni delle quali è in me qualche idea, e così per me stesso sarei Dio. Né debbo ritenere che forse sia più difficile acquisire ciò che mi manca, piuttosto che ciò che è già in me. Al contrario è chiaro quanto sia stato di gran lunga più difficile che io, cioè una cosa o una sostanza pensante, sia emerso dal nulla, piuttosto che abbia acquisito le conoscenze di molte cose che ignoro, le quali sono soltanto accidenti di questa sostanza. Certo, se avessi potuto derivare da me quella cosa che è la più importante, <l’esistenza> non mi sarei privato certamente di quelle cose che si possono avere più facilmente, e neppure alcun’altra cosa tra quelle che comprendo trovarsi nell’idea di Dio; poiché certo nessun’altra cosa mi sembra più difficile a realizzarsi. Se poi alcune cose fossero più difficili a farsi, certo mi sembrerebbero anche più difficili, se pure derivassi da me le altre qualità che posseggo, poiché proverei sicuramente che in esse trova il suo limite la mia potenza.

31. E non sfuggo la forza di questi ragionamenti, se suppongo di essere sempre stato come sono ora, come se da questo ne conseguisse che non si deve ricercare nessun autore della mia esistenza. Ogni tempo della vita può essere diviso in parti innumerevoli, delle quali ciascuna non dipende in nessun modo dalle altre. Quindi dal fatto che poco fa io sia esistito non ne consegue che debba esistere ora, se non perché qualche causa mi crei quasi di nuovo in questo momento, cioè mi conservi. E’ chiarissimo infatti, per chi sta attento alla natura del tempo, che c’è bisogno assolutamente della stessa forza e azione per conservare qualsiasi sostanza per i singoli momenti nei quali dura, che sarebbe necessaria per crearla di nuovo, se non esistesse ancora; in maniera tale che il fatto che la conservazione differisca dalla creazione solo in base al nostro modo di pensare, è anche una delle cose che sono manifeste secondo il lume naturale. (Terza meditazione)

Alessandro Benigni

(segue…)

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